Rubatore di cani seriale.
Animato e convinto vichingo sulla cui testa, oltre alle corna dell’elmo, si adagiano assurdi biondi riccioli unti.
Manfred vuole solo essere chiamato Jhon. Come Jhon Lennon a cui non assomiglia per niente, ma alla cui personalità sente di aderire.
Chi non lo asseconda in tale bizzarra richiesta lo vedrà d’improvviso lanciarsi da un finestrino di un auto in corsa o, peggio, da qualche piano di uno dei tanti ospedali in cui è stato invano internato.
La regia di Jansen è perfetta, avvalorata da un’ottima scrittura, dialoghi forti, sagaci spesso altamente divertenti uniti a situazioni inaspettate. Veramente è tutto fuori dall’ordinario in questo film ed è per questo che convincerà totalmente chi sa esserlo appieno: diverso.
O chi, almeno per una volta in vita, si è sentito tale.
Chi di noi infatti non ha più volti o più maschere, cangianti a seconda delle circostanze? Non siamo una cosa sola cristallizzata, ma una pluralità di voci cangianti anche in relazione al tempo e momenti diversi. L’importante sarebbe viverle con la consapevolezza che esiste anche l’inconscio, oltre al conscio e, se riconosciuto, lasciarlo emergere.

Nikolai Lie Kas ben interpreta la storia di Anker, che è un uomo violento, un rapinatore di banche, appena uscito di prigione.
Suo fratello Manfred, detto Jhon, (sublime Mads Mikkelsens) a cui era stato affidato il bottino, ha seri problemi di salute mentale. Ha infatti rimosso parte della sua infanzia, a causa di traumi pesanti e, con essi, anche luoghi.
I due compiono assieme un viaggio non solo fisico, ma anche interiore con la scusa di ritrovare la refurtiva. Oltre che se stessi.
E recuperano la fratellanza e vicinanza che originarono dall’umano aiuto che Anker ha sempre offerto alla diversità del fratello, proteggendolo fin da piccolo da attacchi esterni, oltre che familiari.
Riuscire a giocare a ping pong con lo spettatore facendolo prima piangere, commuovere e ridere al tempo stesso o, in frazioni di secondo, passando da commedia a tragedia in un batter d’occhio, vuol dire avere una padronanza di scrittura, di regia, di casting, di espedienti e fantasia davvero rara.
Nonostante le risate però il film fa davvero riflettere su bullismo, prevaricazione sulla diversità, traumi infantili e famiglie disfunzionali i cui strascini poi perdurano tutta la vita e, se non riconosciuti, poi difficilmente eliminabili.
Ma ‘The last vicking’ non è assolutamente un film disfattista.
Afferma il potere unico dell’arte, in questo caso del canto, della musica e della condivisione, ma vale anche per cinema e arti visive, di trasformare, guarire e creare potenti e salvifiche sinergie, grandi ponti dorati verso l’altro da sè.
The last viking insegna sapientemente il ribaltamento delle prospettive e traiettorie, la cui diretta e utile conseguenza è quella di essere se stessi e non farsi mai abbattere dal giudizio altrui.
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