di Gaia Serena Simionati

Presentato alla Festa del cinema di Roma, The Persian Version, un film iraniano di Maryam Keshavarz che ha spiazzato il Sundance:

Già reduce dal premio del pubblico al Sundance Film Festival, per l’originalità dello script, il film si apre con l’ironica protagonista, scissa non solo nell’animo, ma anche nel vestire. Tra un burquini, avvalorato da cuffia-hijab e i più consoni jeans dei canoni USA, la si vede camminare a passo danzato e a suo agio, sul ponte di Brooklyn.

D’altro canto se sei immigrata, queer e regista, questa è inevitabilmente la tua fine: non aver mai seguito le regole e proporne di tue.

Commovente, ironico. Profondo, leggero. The Persian version gioca di sponde più di una pallina da biliardo. Confonde e manovra lo spettatore a suo piacimento, agendo sulle sue corde più intime. Vuoi per i colori di una palette sgargiante, annaffiata di fucsia, verdi, arancioni e rossi. Vuoi per i balletti stile bollywood e le musichette orientaleggianti da danza del ventre. Vuoi per uno script efficace e la simpatia di questa numerosissima famiglia (10 fratelli persiani), il film conquista.

E poi sbalza dal riso al pianto, nello scoprire le drammatiche vicende di madri e figlie, nella mascolinità tossica sigillata in un Iran più retrogrado. The Persian version sa parlare bene di integrazione ed esclusione, di personalità del singolo a dispetto del gruppo familiare regolato da stilemi e usanze etniche da cui uno è libero di sentirsi avulso. ma per questo criticato, non capito, spesso coercizzato.

Il film insegna quindi a prendere il coraggio tra le man e ad imparare ad essere se stessi fino in fondo. Costi quel che costi. Anche se un’altra, forse migliore, Versione.

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